#40 - Rain on New York /4

di Yuri N. A. Lucia

 

 

 

Pioggia, cadi, cadi, cadi, sulle nostre teste, così da ricordarci che sopra di noi c’è qualcosa.

 

Pioggia, cadi, cadi, cadi, sui nostri visi, si che si debba levare lo sguardo verso l’alto e ricordarsi che qualcuno è con noi sdegnato.

 

Pioggia, cadi, cadi, cadi, su di me, monda via il peccato che mi ha lordato...

 

Peter si sentiva emozionato come un ragazzino, anche se quella era già la seconda volta che assisteva alla messa in scena del musical dove lavorava sua moglie, per lui era ancora come essere alla prima. La piccola May guardava incantata il palco, sembrava a suo agio, lì, tra le luci e tutta quella gente del bel mondo. Forse aveva preso dalla madre, si augurò che fosse quello il suo retaggio, quello che aveva da offrire lui non era altrettanto splendente. Tornò a guardare dritto davanti a sé, pensando a quanto fossero diversi lui e sua moglie. Ai tempi del suo libro di foto, si era ritrovato a dover presenziare ad incontri per firmare autografi con il pubblico, party pieni di ricchi annoiati, conferenze dove doveva blaterare solo sciocchezze. Si era sempre sentito ridicolo in quel ruolo e fuori luogo in quegli ambienti. M.J. invece si comportava come se fosse nata per quel tipo di vita. Non gli aveva mai fatto mancare nulla, c’era sempre stata una forte intesa tra loro due, un grande affiatamento, una grande intimità. Però in alcuni momenti gli sembrava che tra lui e sua moglie esistesse una distanza superiore a quello che lui potesse coprire con il suo amore, specie quando... sospirò, pensando che avrebbe dovuto affrontare con lei il problema, si rendeva conto che c’era qualcosa che non andava. Nelle ultime settimane lei nominava poco volentieri quel nome, solo dopo la storia al porto si erano trovati a parlare di lui, e non era stata una discussione tranquilla e pacata. Si chiese perchè ultimamente cominciasse a pensare al suo alter ego in termini di “lui”, quasi fosse qualcosa di avulso dalla sua personalità. Forse era il caso di fare un salto dalla Kafka per una bella chiacchierata, forse tanti anni di attività a contatto con schifezze di ogni genere cominciavano a farsi sentire. Ricordò la conversazione con Rucker, e le sue parole gli sembrarono così giuste. Aveva deciso lui di imbarcarsi in quella missione, nessuno lo aveva costretto, non poteva semplicemente voltarsi e scaricare tutte le responsabilità di cui si era fatto carico. Era una specie di “soldato”, da lui ci si aspettava che combattesse contro le forze del caos e del male, le stesse che a più riprese gli avevano strappato le persone che amava. Il suo sguardo, quasi istintivamente, si andò a posare su Norman Osborn, seduto anche lui nella zona vip, e per un attimo anche lui lo guardò. Sul volto di quest’ultimo, dopo alcuni istanti, si dipinse un’espressione di dispiaciuto disappunto. Peter si rese conto di averlo guardato con odio, solo per poco, anzi, pochissimo. Tempo che evidentemente era stato sufficiente al suo rancore per cercare di riaffiorare. May cominciò a tirare la manica della sua camicia. Le sorrise, mentre l’ascoltava chiedere quando la mamma avrebbe cominciato la recita. Anna le raccomandava di non rompere la manica al babbo. Lui le disse che tra poco sarebbe iniziata, le carezzò la testa gentilmente, con affetto. Quando la sua piccola tornò a rivolgersi alla zia, tornò di nuovo a fissare la zona dove gli Osborn stavano. Ora Norman chiacchierava allegramente con il nipote, seduto tra lui e Liz, invece chiusa nei suoi pensieri. Sembrava un’altra persona. Doveva esserlo. Perchè altrimenti, altrimenti significava che in quel momento stava fissando l’assassino di Gwen, il suo primo amore, e di Harry, il suo miglior amico. Sì, anche il suo, visto che era stata colpa sua se era divenuto il III° Goblin, visto che era lui ad aver condizionato negativamente la sua vita, spingendolo prima a divenire un tossicomane, schiavo delle droghe, e poi un criminale folle e allucinato. No, quello era l’altro, era Goblin, che ora non c’era più. Davvero? Quella domanda, dal tono quasi sardonico, era nata spontaneamente dentro di lui. Eppure, per quanto si potesse dire e pensare, l’Uomo Ragno e Peter Parker erano pur sempre la stessa cosa. Possibile che Goblin e Norman fossero davvero due enti separati? Se il primo era così feroce e malvagio, non lo era dunque perchè era stato liberato qualcosa che si trovava nel secondo? E da questo generato? Ora poteva sembrare normale, innocuo, un nonno affettuoso, interessato ai destini del nipote e della nuora, vedova del suo unico ed amato figlio. Ma era davvero così?

 

“Jonah! Ma che ti salta in mente? Qui non si può fumare!”

L’uomo dalla faccia di cuoio. Così si sarebbe potuto soprannominare il numero uno del Bugle, se qualcuno avesse visto l’espressione che aveva in quel momento.

“Dannate leggi anti fumo! Ti sembra possibile che un uomo della mia età non possa gustarsi più un buon sigaro quando più gli piace?”

“Sulla bontà di quei sigari da due soldi che spacci per autentici cubani ho i miei dubbi!- ribbattè ironico Robertson- Comunque nessuno ti impedisce di fumare quando questo è lecito. A casa tua, non nei posti pubblici, dove per altro ci sono dei bambini.”

Con un cenno della testa indicò sulla loro destra. J.J. automatica girò la testa, dando all’amico una nuca con i capelli cortissimi, ormai quasi interamente bianchi e grigi. La sua espressione si raddolcì vedendo il piccolo Osborn e la piccola Parker. Non potè non ricordare i giorni in cui suo figlio era così. Per un ’attimo gli si strinse il cuore. Realizzò solo in quel momento tutto il tempo che era passato. Guardò Peter e gli tornò alla mente il timido e gracile studente che gli si era presentato in redazione, cercando un lavoro part time. Era veramente un immagine ridicola, vestito come uno studente dei primi anni ’60, con quella camicia stirata con cura maniacale, il farfallino, il gilet, gli occhialoni e quel taglio di capelli a spazzola. Si passò una mano sopra la testa e sorrise. Sembrava, in quei giorni, che si dovesse spezzare in due quando alzava la voce con lui, ogni volta che qualcuno lo riprendeva si faceva piccolo, piccolo, piccolo. Ora stava guardando un uomo, onesto, forte, un marito e un padre di famiglia eccezionale, ne era sicuro. Negli anni aveva capito che in lui si nascondeva più di quanto sembrasse. Non glielo aveva mai detto, però sapeva che non era stato facile per lui occuparsi della zia, mandare avanti i suoi studi, lavorare contemporaneamente, quando lo zio che lo aveva cresciuto come un padre gli era venuto a mancare. Tanti altri si sarebbero arresi, avrebbero ceduto. Lui no. Era orgoglioso, quello era il suo Peter.

 

Ilya guardava il palco con un leggero senso di angoscia. Accidenti, non era lì per una gara. Questo cercava di dirsi, con poca convinzione. Anche perchè gara non ci poteva essere tra una anonima studentessa che lavorava come segretaria e una ex top model, attrice di successo, bellissima e intelligentissima. Prima di entrare, mentre cercavano riparo dalla pioggia, lei e Rachel lo avevano visto, lui, accortosi di loro, le aveva invitate ad unirsi alla sua famiglia, la figlia e la suocera, che entravano prima degli altri, essendo parenti della protagonista. La bimba era un vero amore, aveva lo stesso sguardo dolce del padre e il suo sorriso irresistibile. Parlava anche molto bene per la sua età e si muoveva da una parte all’altre, facendo la disperazione della zia Anna, una signora simpatica e dai modi molto affabili. Sembrava proprio un bel quadretto familiare, completato da lui, completamente ed evidentemente pazzo della figlia ed innamoratissimo della moglie.

“Hey! Ancora impegnata a torturarti?”

“Shhh! Vuoi che ti sentano tutti?”

“Beh, se continui così se ne accorgeranno tutti! Mi chiedo lui come non abbia fatto a capirlo. La signora se ne è accorta comunque.”

“Davvero?!”

“Era troppo evidente piccola mia. Non preoccuparti, ti ha guardato con l’aria comprensiva di chi ha capito che si trova d’innanzi un caso di cotta da studentessa.”

“Non dire così...”

“E cosa dovrei dire? Andiamo, su. Devi guardarla in quest’ottica. Non credo che lui nutrirà per te altro tipo di interesse se non una simpatia amichevole. Sai, non l’avrei mai detto, vista la mia opinione in generale sui maschi. Ma non ha proprio l’aria del playboy incallito. Sembra saltato fuori da uno di quei romanzi rosa. Un uomo tutto famiglia e lavoro. Comunque anche se non è il mio tipo, devo ammettere che è molto carino e poi anche simpatico. Ha un modo di fare che ti mette a tuo agio. Ti dà proprio l’idea del bravo ragazzo.”

“Già... mhhhf!”

 

Rucker era visibilmente alterato, tant’è che i suoi uomini lo guardarono preoccupato.

“Cosa? Ne sei certo? Cristo santissimo! Preparati, ci vediamo direttamente lì davanti. No, non ho il tempo di aspettare l’autorizzazione. Muoviti, avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile... e forse non basterà neanche quello.”

Riattaccò il telefono. Tutto l’aiuto possibile... sapeva che tipo di aiuto gli sarebbe servito, non aveva però modo di contattare il ragazzo. Gli saltò in mente che se avesse avuto la possibilità di accendere un segnale che potesse essere visto alto nel cielo allora... che stronzata!, si disse tra sé e sé. Non poteva pensare a certe assurdità mentre stava per svolgersi una strage. Perkins stavolta se lo sarebbe mangiato. Meglio una sfuriata del capo che tutti quei morti sulle sue spalle.

“Ragazzi! Svelti. E’ tempo di muoversi.”

 

Donato Gambino si sentiva, nonostante le ultime tragedie, un uomo fortunato. Nonostante la sua età stava ancora bene e si sentiva ancora un ragazzino. Aveva passato una bella serata a guardare uno spettacolo divertente come non gli capitava dai bei vecchi tempi, quando i musical erano davvero dei musical. Doveva ammettere che quella ragazza ci sapeva fare, oltre ad essere di una bellezza travolgente, era ancora bravissima sul palco, aveva del vero talento. Ma la vera bellezza, e la sua più grande fortuna, la teneva per mano in quel momento. Sua moglie Concetta, anche se non più giovanissima, era sempre la donna più bella e fantastica che avesse mai conosciuto. Non passava giorno che ringraziasse il padre eterno per lei. Sentiva che l’amore per lei, dopo tutti quegli anni, non era diminuito, anzi... le strinse con più forza la mano. La guardò dritta negli occhi ricambiando il suo sorriso. Quell’istante sembrò durare tutta una vita. Poi il sangue volò, bagnandogli il volto, il vestito, l’asfalto su cui camminava. Era il sangue della sua donna. La vita di lei venne strappata dal corpo in pochi secondi.  I buchi si aprirono nel suo corpo, sul lato destro della testa, un proiettile attraversò l’occhio, penetrandogli nella spalla. Il corpo macellato cadde in avanti, tra le sue braccia. La sua intera esistenza fu spazzata via con ferocia in pochi istanti. Angelo aveva cercato di fargli da scudo. Quasi subito quelli che avevano aperto il fuoco da una sportiva color grigio metallizzato, passarono ad armi a proiettili accellerati, capaci di forare come burro il Kevlar del giubbetto del ragazzo, che si ritrovò spinto indietro dalla violenza dei colpi. Carmelo aveva cercato di accennare una reazione, anche lui fu steso subito da una sventagliata di Uzi che gli ridusse il volto ad un inferno irriconoscibile. Stevie e Matt uscirono di corsa dalla Crysler Voyager che avrebbe dovuto scortare l’auto del boss. Ma subito questa, centrata da un mini missile sparato da uno dei killer cinesi  giunti sin lì per giustiziare l’anziano gangster, esplose, riversando una cascata di pezzi di mettallo bollente per la strada, dove ormai la gente, in preda all’isteria, scappava, accalcandosi, spingendosi, pestandosi. Don, in una  pozza di sangue, stringeva con disperazione quello che rimaneva della sua amata Conny. Le lagrime cadevano sulle sue spoglie, così orribilmente sfigurate e il dolore sembrava volesse strappargli l’anima. Un proiettile mise fine alla sua agonia.

 

Peter si era fatto largo con la forza in  mezzo alla folla. Dovette trattenersi per non far male alla persone che spingeva di lato. Ma in lui c’era la disperata urgenza di mettere in salvo sua figlia e la nonna della piccola che sembravano dovessero aver ragione della sua prudenza. Nonostante il flusso di gente, il suo fisico, cento volte più forte di quello di un essere umano normale, riuscì a passare, aprendo un varco, in quel fiume di carne e terrore. Le portò all’interno del teatro, forse il posto più sicuro, almeno finchè quegli assassini sanguinari fossero stati fuori. Arrivarono nella zona camerini, dove gli artisti erano barricati, impauriti per i rumori che provenivano da fuori. Qualcuno aveva gridato all’attentato terroristico e il panico si era diffuso in pochi secondi. Le immagini di quanto successo nel teatro a Mosca erano ben impresse nelle menti di tutti. In una città come N.Y.C. poi, ormai gridare all’attentato, significava innescare reazioni incontrollabili. Mary Jane cercava di calmare una ragazza che in preda ad una crisi, stava vomitando appoggiata ad una parete dai colori sgargianti.

“Peter! Oddio, state tutti bene!”

Aveva lei stessa mantenuto la calma a stento, perchè sapeva che sua figlia e sua zia erano con uno degli eroi più forti ed esperti che ci fossero in città. Nonostante questa certezza l’angoscia era stata terribile. Gli abbracciò tutti e tre rimanendo in silenzio alcuni secondi, e, infine singhiozzando lei stessa.

“Mamma, mamma, non piangere. Ora siamo qui! Va tutto bene!”

Sorrise a quelle parole cariche di ingenuo ottimismo della figlia.

“Sì, lo so. Devi scusare la mamma, ma non è coraggiosa come te.”

“Oh, no mamma. Non peoccuparti. Ora arriva l’Uomo Ranno e ci salverà tutti.”

Pete e lei si scambiarono un’occhiata preoccupata. Anna, evidentemente sconvolta per quello che stava accadendo fuori, non sembrava aver dato troppo peso a quello che la nipote aveva appena detto. Per loro due la cosa era diversa. Perchè aveva detto quella cosa? Non era la prima volta che la piccola tirasse in ballo l’Uomo Ragno, ma era la prima che volta che accadeva in una circostanza simile. Proprio in quel momento arrivò Norman con Liz e suo nipote.

“Grazie al cielo siete quì! Anche voi avete avuto il buon senso di venire qui.”

M.J. sembrava a disagio per l’improvvisa comparsa del vecchio Osborn e anche Peter lo era ma cercò di dissimulare quella sensazione per non far capire nulla alla povera Liz e a suo figlio.

“Ma cosa sta succedendo? E’ davvero un’attentato?”

Disse la sua amica ed ex fiamma.

“No. Non credo. – disse Pete, parlando in tono conciso. - Ho intravisto qualcosa. Hanno colpito un bersaglio specifico, una coppia. Sa più di regolamento di conti. Vado a cercare di vedere se la polizia è arrivata e se si può uscire di qui in modo sicuro, voi aspettatemi e non muovetevi.”

“Vengo con te ragazzo...”

“No!”

La sua risposta alla proposta di Norman fu così violenta che tutti i presenti sussultarono. Il piccolo Normie guardò interdetto quello che sapeva essere stati uno degli amici più cari del papà e poi il nonno che pensava, per tanto tempo, morto.

“Volevo solo...”

“Rimani qui. Occupati di loro. Mi raccomando a te...”

Quell’ultima richiesta aveva più il sapore di una  minaccia che di una raccomandazione.

“...io...sì, non preoccuparti. Ci penso io.”

Norman si sentiva dispiaciuto e... vinto. Il suo passato lo avrebbe tormentato per sempre. Forse era giusto così, visto tutto il male di cui si era macchiato.

 

Robbie e Jonah proprio non riuscivano mai a passare una serata che non si tramutasse in qualcosa di disastroso. Ma stavolta le superava tutte. Si erano ritrovati invischiati in quella che sembrava una guerra tra bande... no, un regolamento di conti, si corresse Robbie, che di queste cose aveva un’esperienza pluri decennale. Si scambiò un’occhiata di intesa con Jonah che evidentemente condivideva il suo stesso parere. Non avevano macchine fotografiche con sé, altrimenti sarebbe stato un bel colpo per il giornale. Però al momento c’erano cose più urgenti. Soccorrere i feriti che erano rimasti coinvolti nell’accaduto e cercare di sopravvivere, se possibile.

 

Rucker praticamente saltò giù dall’auto che ancora si muoveva a diversi metri dalla scena dell’accaduto. Dette degli  ordini concitati, con gesti autoritari che non ammettevano repliche. Estrasse dalla fondina ascellare una Glock 17 e una Cougar 8000 da dietro. Indossava un giubbotto di Kevlar Hell-Boy, dotato di uno speciale rinforzo interno, in grado di resistere a proiettili di medio calibro sparati anche da distanze medio-brevi. Corse tenendo il profilo basso, usando le auto come riparo, cercando di raggiungere i sicari dalla parte opposta, rispetto a dove ora stavano concentrando il fuoco. Contò due auto. Una Audi A8, il modello dell’anno scorso, di color grigio argento. Una Chevrloet Trailblazer, stesso colore. Nella prima vide quattro uomini, che si erano portati, dopo essere usciti, dietro il veicolo, la cui carrozzeria, a giudicare da come la usavano come riparo, doveva essere rinforzata con lastre ceramiche, resistenti come un blindo, molto più leggere, estremamente di moda i criminali. Due uzi, un fucile a proiettili accelerati latveriano, un A391 3.5.

La Traylblazer era leggermente arretrata rispetto alla A8, e più vicina al marciapiede. I suoi occupanti erano rimasti dentro. Cinque, volto coperto come gli altri, non riusciva a distinguere le armi che avevano, sicuramente anche loro si trovavano con almeno un fucile a impulso. Sputò in terra, come faceva sempre quando doveva scaricare la tensione per poter poi agire con il massimo della freddezza.

“Ok Rookye. Ora tocca a noi.”

Punto alla spalla di quello che aveva l’arma ad impulso, la più pericolosa. Avrebbe potuto superare la protezione offerta dalle auto parcheggiate. Aprì il fuoco, quello si contrasse per il dolore, lasciando cadere quasi subito la micidiale arma. Scott, che si era portato più avanti di lui passandogli di fianco invece aprì un fuoco di copertura, puntando ai vetri anti proiettile della Chevrolet. Il veicolo in questione mise in moto e senza pensarci su due volte eseguì una manovra di fuga, allontanandosi dalla sparatoria con la polizia, nella quale evidentemente non voleva essere coinvolta. Rucker si abbassò in tempo, per evitare le due cartucce super magnum sparate dall’arma a gas che usavo uno dei cinesi. Il muro davanti a lui si ritrovò con due bei buchi. Ghignò maligno.

“Se vuoi farmi fuori, devi fare di meglio bimbo.”

Si alzò di scatto girandosi e aprì il fuoco con tutte e due le pistole contemporaneamente. Non aveva scelta. Scott colpì alla testa un tizio grande e grosso, che stringeva un altro uzi, estratto dal trench, mentre lui colpì a morte il ragazzo con il fucile, bucandogli la testa, e ferì alle gambe l’altro che cadde a sedere a terra. Lasciò quasi subito l’arma e alzò le mani in segno di resa. L’altra auto ormai era lontana. Sicuramente si dirigevano verso un posto per loro sicuro e per organizzare dei posti di blocco era troppo tardi. Imprecò tra i denti. Poi alzò lo sguardo, quasi guidato dal suo istinto. Sorrise soddisfatto mentre una macchia rossa e blu sfrecciava veloce sopra la sua testa. Per un attimo si erano scambiati un’occhiata, o almeno era sicuro che avesse contraccambiato la sua.

“Acchiappali tu quei bastardi!”

Prese dalla tasca interna del suo soprabito un pacchetto mezzo accartocciato di sigarette, ne trasse fuori una e se la accese con il suo vecchio accendino. I suoi uomini tenevano sotto tiro gli unici dell’Audi, che non fecero resistenza quando gli misero le manette ai polsi. Rucker tirò una boccata del suo dolce anestetico.

“Signore l’altra macchina è...”

“L’ho vista. Comunica di tenere d’occhio le vie che vanno al porto e gli accessi all’autostrada. Comunque, tra un po’ qualcuno ce li impacchetterà per bene.”

“Cosa...”

Poi si interruppe, e capì.

 

Era un predatore che seguiva la preda. Osservava dall’alto il veicolo, che gli pareva piccolo, eseguire tutta una serie di manovre elusive. Non c’era che dire, l’autista era bravo, un esperto. Non era la prima volta che lo faceva, né la prima volta che quelle bestie commettevano una strage del genere. Ripensò a quello che aveva visto. Immaginò, solo per un’insopportabile istante, che in quella pozza di sangue ci fossero state May e M.J. Digrignò i denti sotto la maschera.

 

Shao era entusiasta, quel lavoro era riuscito veramente bene, anche se quei fessi del gruppo di Kevin si erano fatto beccare. Comunque non era un loro problema, dovevano solo raggiungere il molo dove avrebbero nascosto l’auto e sarebbero stati a posto. La vita non va sempre come speri che vada, questo imparò quella sera il giovane Shao. L’auto si bloccò all’improvviso e solo gli air-bag di serie gli salvarono il volto da un brutto impatto. Leggermente stordito e con le orecchie che fischiavano per via dello stridere delle gomme che ancora giravano sull’asfalto, si girò e fu allora che vide la forma delle sue paure materializzarsi. Era proprio come quei demoni dell’ombra che gli descriveva sempre il nonno, le lunghe notti al villaggio, quando lui gli chiedeva con insistenza di raccontargli le favole. Al paraurti posteriore era appiccicato quello che sembrava un grosso filo, pieni di grovigli e nodi, la cui altra estremità era tra le mani del diavolo, dal volto di sangue e dai grandi occhi d’argento, che tirava e tirava, trascinandoli verso di sé, verso una fine orrida sicuramente. Disperato, impaurito, sfondò il lunotto posteriore con il calcio del suo fucile Marui Riot 12, e aprì il fuco. Ma difficilmente si centra al primo colpo un’ombra. Era sparito, un attimo prima che le cartucce arrivassero sul bersaglio. Urlò quando il tetto dell’auto fu sfondato e un mano lo afferrò da dietro il bavero della giacca, tirandolo su di colpo. Non sentì e non vide più nulla mentre scivolava nell’oblio.

 

Il senso di ragno premette con vigore dietro la nuca, urlandogli di stare in guardia. Saltò verso destra, evitando la raffica di proiettili che furono sparati verso l’alto, forando il metallo e che lo avrebbero ridotto ad una poltiglia sanguinolenta se lo avessero colpito. Con facilità, derivatagli da uno scheletro due volte più flessibile di quello umano, si piegò all’indietro, quasi a toccare terra ma tenendosi leggermente sollevato. Scivolò rapido sotto l’auto e, puntate le spalle a terra, la sollevò all’improvviso.

“Molto bene gente, ora ascoltatemi. Non sono dell’umore per trattare con voi. Non dopo quello che avete fatto. Quindi datemi retta, buttate via le armi senza troppe storie.”

Nessuna risposta.

“Allora abbiamo dei duri qui eh? Vediamo se anche lo stomaco è così duro.”

Lanciò l’auto in alto e questa ruotò su se stessa. All’interno gli occupanti urlarono. Finì contro i piedi dell’ Uomo Ragno che aveva alzato le gambe. La lanciò con più potenza verso l’alto. Stavolta si alzò per quasi sette metri, girandosi sul fianco sinistro. Di nuovo la lanciò in aria, con ancora più forza. Si mise in piedi e prese l’auto che cadeva con il muso rivolto verso il basso. La fece ruotare, girando su se stesso sei volte. Alla fine quelli vennero fuori vomitando, dopo aver gettato le armi lontano dai finestrini.

“Sono lieto di vedere che siete tornati alla ragione. Ora, prima che arrivino i miei amici poliziotti, facciamo quattro chiacchiere.”

 

Erano seduti ad un elegante tavolo di fattura italiana, su comode sedie inglesi, imbottite, mentre una cameriera orientale, molto discinta, serviva il thè e alcuni dolcetti.

“E’ un piacere per me, vedere che alla fine si è dimostrato un uomo ragionevole, venendo qui a parlare con me. Andrò subito al dunque, perché so che lei è un uomo che non ama troppo le sottigliezze. Abbiamo un comune problema, sicuramente immaginerà di cosa sto parlando. Finora, mio caro signore, i suoi tentativi per sbarazzarsene sono stati poco fruttuosi.”

“Non mi dice niente di nuovo...”

Rise sarcastico.

“Eppure terribilmente vero, no?”

Sorrise affabilmente, anche se negli occhi, per un attimo, fece capolino un guizzo di crudele beffa.

“Feng, per piacere, vuoi attivare il proiettore?”

Il fedele braccio destro si recò dietro un tavolo, sulla cui superfice, apparentemente di legno coperto da venature, ad un gesto, comparvero i comandi di una console. Sfiorò con l’indice alcuni tasti e mentre la stanza piombava in una semi oscurità, una sezione del muro alle spalle di Xiu Jingu, diveniva prima azzurra, poi cominciò a coprirsi di immagini. C’era una data in alto a destra, cambiava ogni 2 minuti. Diversi filmati, diversi esperimenti.

“Che cosa è?!”

Chiese sorpreso mentre vedeva gli uomini del filmato compiere azioni a dir poco mirabolanti.

“I soldati P., una delle nostre armi di punta. Uomini precedentemente addestrati ad altissimi livelli e sottoposti ad uno speciale trattamento potenziante.”

“Ah! Che tipo di trattamento?”

Chiese curioso, lasciandosi scappare frammisto nella voce una nota di impazienza e di speranza.

“Lei sicuramente conoscerà la storia di uno dei vostri più famosi e vecchi eroi. Capitan America.”

“Cosa c‘entra lui in tutto questo?!”

Il pensiero delle umiliazioni patite per mano del discobolo in passato lo fece infuriare, si controllò a stento, reprimendo il desiderio di buttare giù il muro dove ora capeggiava l’immagine dell’odiato nemico.

“Per anni il siero che gli diede le sue facoltà al tempo della Seconda Guerra Mondiale, è rimasto un mistero. La sua formula era conosciuta solo dall’inventore, che morì durante un attentato, proprio poco dopo che venne creato il primo ed unico esemplare di Super Soldato al mondo... o almeno prima che noi venissimo in possesso di una formula analoga che ne riproduce perfettamente gli effetti.”

“Balle! Ci hanno provati tanti a tirar fuori un’altro siero del super fantoccio! E sapete con che risultati???!”

“Nessuno, però, mio caro signore, aveva la nostra esperienza. Mi creda, abbiamo trafugato informazioni preziosissime dai servizi segreti cinesi... in cambio di favori e denaro. Certo, non abbiamo ancora un processo di produzione che ci consenta di ottimizzare i tempi o ridurre i costi... ma quello che lei ha visto è il frutto del Siero del Super Soldato! Chang, Quong...”

Al battere delle sue mani, la porta si aprì e fecero il loro ingresso due torreggianti ragazzi, il cui aspetto non poteva essere definito in altro modo che perfetto.

I due osservarono silenziosamente l’invitato del signor Xiu, quest’ultimo a sua volta ricambiava il loro sguardo freddo e silenzioso.

“A che gioco vuoi giocare con me, muso giallo?”

“Ahi! Che espressione arcaica e poco politically correct, da uno come voi mi aspettavo di più e anche maggiore intuitività. Avevate dei dubbi su quel che ho detto prima? Ecco la dimostrazione che non mentivo. Attaccate!”

Con una velocità e una coordinazione tale dall’avere dello strabiliante, i due si lanciarono in un assalto sincronizzato contro l’uomo che li evitò solo per un secondo. Senza perdere tempo i due si portarono ai lati opposti del loro bersaglio, cominciando a girargli intorno. Per evitare di trovarsi uno di loro due alle spalle cominciò a girare su se stesso. Volevano stordirlo per poi finirlo, solo che lui non ci stava a farsi mettere nel sacco così. Estrassero delle armi, uno o due nun-chuck e l’altro una corta spada dalla lama semi ricurva. Era una danza mortale al centro del quale stava la vittima, che rifiutava quel ruolo che sembravano avergli assegnato. Non si era mai lasciato mettere sotto facilmente e di certo non intendeva farlo ora. Scattò in avanti, tenendo i polsi incrociati, puntando a quello con la spada. Non reagì fino all’ultimo, quando praticamente poteva guardargli nelle pupille. Si scansò con una rapidità stupefacente. Andò a finire contro la parete dove poco prima erano passati i filmati, riducendola in polvere. Passò in un ambiente attiguo, leggermente più grande, meno ammobiliato e dall’aria più “ufficiale”. Si girò in tempo per vedere due ombre entrare velocissime nella stanza illuminata solo da due coppie di faretti montati in terra e sul controsoffitto bianco. Di nuovo nel mezzo! Stavolta furono loro a prendere l’iniziativa. Sentì qualcosa di duro colpirlo alla base della nuca e generargli un forte dolore e stordimento. Se non fosse stato per la sua resistenza fuori dall’ordinario sarebbe crollato a terra come un sacco di patate. Urlò quando quello con la lama gli aprì i vestiti ferendolo all’addome. Un taglio superficiale, ma gli aveva fatto chiaramente capire che se avesse voluto sarebbe andato più a fondo. Cercò di colpire di nuovo, ma quello con i nun chuck era abile e veloce, si piegò all’indietro in tempo, evitando un pugno che gli avrebbe staccato la testa di netto, mentre da dietro colpì quello che l’aveva ferito, un calcio volante mirato alla schiena, vibrato con forza superiore alla norma e con grande maestria. Stavolta si piegò sul ginocchio sinistro, ringhiando come un animale rabbioso, mentre fendeva aria vuota con il braccio la dove prima c’era il suo aggressore. Piantò una mano a terra e sollevando la sua massa cercò di colpire quello che ancora stava davanti a sé con un potente calcio ma l’altro, per nulla impreparato, lo bloccò proprio con le gambe e ruotando sulle spalle all’indietro lo sollevò da terra, mandandolo a sbattere contro una colonnina di marmo con sopra un vaso che andò in frantumi. Si rialzò più in fretta che poté, un pugno velocissimo lo prese in pieno volto facendogli bruciare una guancia. Prese una parte della colonna e cercò, indolenzito per l’impatto di colpire il nemico che si era portato a distanza di sicurezza. Un altro pugno, di nuovo dietro la nuca. Si girò solo per ricevere un calcio alla coscia che lo prese sui fasci nervosi, paralizzandogliela, e uno nelle costole. Cercò di colpire di nuovo, con una finta, scattò stavolta all’indietro, prendendo con una gomitata lo spadaccino che per il dolore mollò l’arma e lanciò un grido strozzato.

“Bene, bene, basta così prego. Non vorrà uccidere due dei miei uomini migliori?”

Jingu era là, appena al di là del foro nella parete, che applaudiva compiaciuto e con un sorriso raggiante sul volto.

“Vorrei ammazzare te brutto...”

“Su andiamo! Siamo tra adulti qui! Senza contare che nel palazzo ci sono altri 10 come i due che ha appena affrontato, armati sino ai denti e fedelissimi al sottoscritto. Senza contare il buon vecchio Feng.”

Con un cenno indicò il silenzioso orientale, leggermente dietro ma pronto, in pochi istanti, a farsi avanti.

“Non lo sottovaluti. Parla poco, ma agisce bene.”

Sputò in terra, guardandoli con odio e disprezzo.

“Volevate impressionarmi con questo giochetto?”

“Volevamo farle capire una cosa molto semplice. Il Siero, ha la capacità di risvegliare e realizzare il potenziale latente di qualsiasi persona. Ora, questi due erano due assassini professionisti, pur sempre umani però, privi di poteri para umani. Eppure guardi! Agilità, velocità, forza fisica! Tutto ai massimi livelli consentiti dal corpo umano! E il loro cervello? Avrà notato la coordinazione, la precisione con cui agivano. Immagini, solo per un attimo, cosa accadrebbe se un essere dotato di super poteri venisse sottoposto ad un trattamento con il Siero?”

Soppesò quelle parole come se stesse gustando il più dolce dei piatti.

Sogghignò.

“Ah Jingo! E’ un piacere trattare affari con lei!”

 

Mary Jane guardava fuori dalla finestra.

“E’... e’ proprio necessario che tu lo faccia?”

“Vorrei che ci fosse un altro modo. Ma non c’è. Io... devo. Lo hai visto anche tu che animali che sono! Se non ci pensassi io...”

“Ci sarebbe pur sempre la polizia. E poi questa è o no la Grande Mela? Dove sono gli altri eroi in calzamaglia? Perché dovresti fare tutto da solo? Non possono pensarci anche loro?”

Peter non riuscì a sostenere il suo sguardo carico di disapprovazione.

“Non è semplice come sembra… ognuno di loro ha i suoi bei problemi a cui badare. Lo so anche io che un po’ di aiuto mi farebbe comodo ma…”

“Ma cosa!?! I Fantastici Quattro e i Vendicatori sono troppo impegnati a giocare contro scienziati pazzi, nemici da operetta e minacce interdimensionali per occuparsi di questo macello? Allora dovrai pensarci tu da solo? Dovrai essere l’unico a rischiare tutto!? E poi perché questa decisione di…”

“M.J.! Ti prego! Non rendere tutto così difficile! Devo farlo, non ho scelta!”

Lei gli girò le spalle.

“Certo che lo farai!- tratteneva a stento la rabbia, mentre stringeva i pugni- Lo fai sempre vero? Dai la precedenza a tutto e tutti… fuorché alla tua famiglia. Bell’eroe…”

Rimase senza parole. La fissò a lungo, non sapendo cosa ribattere. Poi silenziosamente si girò ed uscì dalla stanza.

Lei pianse tanto quella sera.

 

La pioggia lo colpiva impietosa, quasi volesse punirlo per quello che aveva fatto. Sentì di lontano un tuono, tirò su il bavero della giacca e tirò dritto. Aveva colpito tante volte duramente l’animo della donna che amava, ora però era andato oltre. Stavolta era stato diverso, da parte sua aveva percepito quasi il desiderio di mettere distanza tra sé e la fonte delle sue sofferenze e come poteva darla torto? Cosa stava facendo? Perché stava portando la situazione a quel punto? Voleva proprio distruggere la sua famiglia? Dopo tutto quello che aveva visto… dopo le notizie ricevute… non poteva fare altrimenti, anche se sapeva che il prezzo delle sue azioni lo avrebbe pagato forse per sempre.

 

Jonah si stava lamentando di brutto mentre l’infermiere gli cambiava il bendaggio.

“Deve proprio fare così male?!”

“Se le fa male è un buon segno! Vuol dire che il braccio c’è ancora:”

“Ma chi è lei? Il Dick Van Dicke dei poveri?! Robbie! Fai qualcosa!”

“Ha ragione J.J., è un miracolo che tu te la sia cavata con così poco.”

“Tze! Ne ho passate di peggio io! Quando andai in Corea…”

“Si, lo so già! Me lo hai raccontato un milione di volte. Non è necessario che tu ora ammorbi anche questo ragazzo che sta solo facendo il suo lavoro.”

“Dovrei buttarti fuori dal giornale per quello che hai detto! Brutto ingrato che non sei altro… comunque… come sta la ragazza…”

“Stazionaria- intervenne l’infermiere che aveva pazientemente ascoltato in silenzio il battibecco tra i due vecchi amici -, anche se le previsioni non sono delle più rosee. Il proiettile ha preso una zona piena di vasi sanguigni. E’ stata operata d’urgenza e domani dovranno rioperarla probabilmente. Se non ci foste stati voi a darle il primo soccorso…”

Jonah si sentì torcere lo stomaco. Rivedeva con gli occhi della mente quella povera bambina riversa a terra, presa da una pallottola vagante. La sua amica le stava a fianco, sconvolta, mentre con le mani cercava inutilmente di tamponarle l’emorragia.

“Che mondo schifoso…”

Sussurò tra sé e sé.

 

Ilya era una bella bimba di 6 anni. Contenta che il papà fosse a casa per giocare con lei.

Ilya rideva e rideva mentre lui le faceva fare il cavalluccio sul ginocchio.

Ilya era tanto felice, perché il suo babbo e la sua mamma erano lì e le sembrava che tutte le cose del mondo con loro andassero a posto.

Ilya sognava su un letto d’ospedale, mentre Rachel piangeva fuori nel corridoio.

 

Rucker aspettava nel posto concordato. Un tizio, con la voce camuffata, lo aveva avvertito che lui voleva incontrarlo. Un luogo appartato, una piccola vecchia chiesa cattolica nel Queens, pochissime vecchiette che pregavano davanti ad un altare che avrebbe avuto bisogno di più di un restauro.

Lui si sedette dietro, era arrivato silenzioso come un ombra. Indossava un lungo soprabito e un cappello a tese larghe, decisamente fuori moda, con cui copriva il costume e la maschera. Un travestimento sopra un travestimento, in altre occasioni quel paradosso lo avrebbe divertito molto. Ora c’era poco da ridere.

“Sono contento che tu sia venuto.”

“Non mi sarei perso questo incontro per nulla al mondo, senza contare che ti debbo già tre favori. Spara tutto.”

“Voglio Xiu Jingo. Voglio i Jong.”

“Siamo in due allora.”

“Avrò bisogno di informazioni. Luoghi, depositi di roba, bordelli, quante armi hanno e da dove vengono. E’ una guerra Rucker, non voglio perderla.”

“Benvenuto a bordo figliolo.”

I due, senza più dire una parola, cominciarono a pregare.

 

In una località sulla costa iberica:

“Sono pronto a partire signore. Mi sincererò che la partita di P.O.W.E.R. sia consegnata a mr. Xiu Jingo come lei desidera.”

“Ottimo ragazzo, ottimo. E’ uno dei nostri migliori clienti, e anche un discreto giocatore di Tennis. Mi dispiacerebbe davvero perderlo. Non saprei con chi altri giocare. Nel giro dei nostri affari fanno tutti schifo. Nessuno che sappia disputare almeno due set decenti. Fai buon viaggio e salutami la vecchia Grande Mela.”

“Grazie Signore. Porterò i suoi saluti.”

 

Il magazzino non sembrava particolarmente sorvegliato. Rookie passò il binocolo a visione infrared al ragazzo. Peter dette un’occhiata dentro. Cinque uomini, sembrava non ce ne fossero altri.

“Sicuro che siano tutti lì?”

“Si. E’ da quando li abbiamo seguiti che stiamo controllando. Direi che le cose sono proprio come sembrano.”

“Non lo sono quasi mai.”

“Vero anche questo.”

“Che pensi?”

“Questo trasferimento di armi… tutto troppo improvviso. E poi li abbiamo seguiti con troppa facilità.”

“Temi una trappola?”

“Potrebbe essere. Non lo escluderei.”

“Per voi?”

“No.”

“Credi che il comitato là dentro stia aspettando il sottoscritto? Il buon vecchio Uomo Ragno di quartiere?”

“Temo di sì…”

“Sei troppo paranoico. Ma mi sa che mi stai contagiando. Comincio a pensare anche io che ci sia qualcosa che non quadra.”

Rookye meditò su quella sensazione. Decisamente era anormale, non poteva portare i suoi uomini là dentro se non era più che sicuro che la situazione fosse sotto controllo. Il filo dei suoi pensieri venne improvvisamente interrotto.

“Io vado là dentro.”

“Non fare sciocchezze.”

“Non ho voglia di rimanere qua tutta la notte. Potrebbero venire a ritirare le armi e così le cose si complicherebbero.”

Sapeva che qualcosa che non andava c’era. Il senso di ragno era sul chi va là, questo significava che effettivamente là dentro era stata allestita una trappola. Tuttavia quando il suo pensiero correva alla voce di Rachel che lo avvertiva telefonicamente di quanto accaduto ad Ilya…

“Voi copritemi le spalle. Cercherò di rendervi il lavoro più facile.”

“Cerca di non farti ammazzare.”

Gli dette una pacca sulla spalla, un attimo prima che spiccasse un balzo verso il palazzo di fronte, da cui agganciò il basso fabbricato con una tela. Scivolò lungo essa con grande abilità e arrivò sul tetto del magazzino in breve tempo.

“Qui Rucker. Mansel, Scott, Ricotti, preparatevi all’azione. Intervenite solo quando ve lo dirò io.”

Chiuse il contatto della sua radio e andò alle scale.

 

Sfondò il lucernaio, contando di gettarli così nel panico. L’azione avrebbe dovuto essere rapida, in modo da ridurli all’impotenza in un batter d’occhio. Ma non è così che andò. I loro tempi di reazione furono decisamente superiori a quello che aveva immaginato. Evitò per un pelo un attacco portato da due di loro contemporaneamente. Avevano cercato di prenderlo da due lati diversi, contemporaneamente. Si tirò indietro, piegandosi in modo inumano, per evitare un colpo di coltello vibrato contro di lui, dandosi una spinta con una mano un attimo dopo, per evitare un calcio diretto alla gamba. Si sollevò in aria per tre metri, ruotando su se stesso. Riatterrò in piedi e cercò di colpire a sorpresa quello dietro. Però il suo attacco andò a vuoto. Il bersaglio si spostò di lato e per poco non fu preso da un colpo di pistola esploso da un terzo uomo che si era messo in una posizione tale per cui gli era facile tenere sotto controllo quasi tutto il perimetro dell’edificio in cui si trovavano. Un unico grande ambiente, in cui non c’erano divisori o punti in cui nascondersi. Il posto ideale per un’imboscata. Il senso di ragno lo aveva avvertito per tempo, salvandolo da una brutta fine, tuttavia non poté evitare la carica di uno degli uomini dei Jong, che lo prese mentre non aveva ancora toccato terra, riuscì solo a rilassare in tempo il corpo per non finire con la schiena rotta mentre questo lo placcava a testa bassa da dietro. Era troppo forte e veloce, come gli altri del resto, riflessi eccessivamente rapidi… paraumani? Potenziati in qualche modo? Mutanti? Chi poteva dirlo. Lo afferrò dietro la nuca, spingendo in avanti con forza, più di quanta ne avrebbe usato per un essere umano normale. In questo modo si portò di nuovo dove si trovava e lo mandò a sbattere contro una  delle pareti più corte che si crepò vistosamente, là dove la testa del cinese la colpì. Un altro balzo e si portò sulla parete antistante a quella dove stava il tipo con la pistola. Si proiettò in avanti, mentre i muscoli delle sue gambe lavoravano in un modo in cui quelle di un umano ordinario non avrebbero potuto fare. Il suo obbiettivo provò a sparare ma aveva lanciato preventivamente del fluido dai suoi lancia ragnatele, bloccando la canna della sua S9000, lasciò cadere rapidamente l’arma, prima che gli esplodesse tra le mani e si spostò sulla destra un attimo prima che gli arrivasse addosso. Rise tra sé e sé.

“Sono in giro da troppo – pensò – per non aver calcolato questo.”

Prima di colpire il muro, portò le mani avanti, frenando il suo volo e ammortizzando l’impatto grazie all’elasticità dei suoi arti. Sforbiciò all’improvviso, colpendolo con un calcio alla spalla e mandandolo contro delle casse accatastate che andarono in pezzi. Dentro c’erano delle armi. Si staccò dalla parete con una leggera spinta, cercando di evitare un altro colpo di pistola. Un altro gli si era fatto da presso, mentre un compagno cercava di impedirgli di indietreggiare tenendolo sotto tiro. Un getto improvviso di gas che uscì dalla manica del tipo fece urlare il suo senso di ragno. Si trattava di qualcosa di letale. Cercò di spostarsi indietro. Saltò evitando un colpo di spada che avrebbe spaccato le sue costole, volando sopra la testa dello spadaccino che si chinò evitando un colpo che lo avrebbe stordito. Erano bravi, e maledettamente veloci e resistenti. Un disco sibilò vicino alla sua testa, lo evitò proprio all’ultimo sempre grazie al suo fido sistema di all’arma. Aveva già visto una cosa del genere. Un A-300 modello Nomad, costruito da Smith e Wesson. Titanio e uranio impoverito all’interno, roba che se lo avesse preso sulla tempia l’avrebbe ucciso. Non stavano scherzando. Volevano farlo fuori. Altri tre dischi, uno dei tre lo prese all’avambraccio destro che aveva preventivamente alzato per difendersi. Il dolore che provò quando il metallo cozzò contro l’osso fu terribile. Il costume si era lacerato in quel punto e si era aperto un taglio profondo da quale per alcuni istanti zampillo un fiotto rosso. Si lanciò in aria, prendendo al volo una cartuccia di fluido dalla cintura. Alcuni proiettili cercarono di mordergli le carni, ma raccogliendo le ginocchia al petto e incassando la testa tra di esse per un breve istante, riuscì ad evitarli. Lanciò la cartuccia su due che si trovavano vicino. L’aveva manomessa al volo, usando la forza delle sue dita, e quando toccò terra esplose, liberando una gran quantità di materiale filamentoso che imprigionò i killer. Ne rimanevano due. Purtroppo, quando tocco terra e si girò, uno gli era proprio di fronte, evitò un paio di colpi, ma riuscì ad assestargli una ginocchiata sulla coscia, distratto per un attimo, prese in pieno volto un pugno che spaccò una della sue lenti. La guancia doleva come se gli avessero passato fuoco liquido sopra. Bloccò un altro pugno velocissimo che lo avrebbe preso sul naso, ma l’altro aveva estratto all’improvviso una pistola. Evitò, spostandosi, di essere colpito in pieno petto, ma stavolta si aprì un buco nella spalla. Mentre evitava il colpo ruotò il polso del tizio, rompendolo, attirandolo contemporaneamente in avanti e facendo compiere al suo corpo una proiezione a mezz’aria. Atterrò sbattendo la schiena. Si girò verso l’ultimo rimasto. Il dolore alla spalla era lancinante, il suo organismo stava cercando di anestetizzarlo ma la coscia sembrava paralizzata. La stessa in cui era passato il proiettile la scorsa settimana. L’aveva sforzata troppo, ed evidentemente era ancora in via di recupero. Per questo quando provò a saltare una fitta fortissima gli stritolò il cervello. Era la fine. Lo capì in un istante. Era arrivato alla fine del gioco e tutto quello che riusciva a pensare era che gli dispiaceva che avvenisse così. Senza poter riabbracciare la sua famiglia. La tempia del ragazzo che gli stava di fronte con la pistola puntata all’altezza della sua testa esplose in tante piccole schegge d’osso, riversando verso l’esterno sangue e materia grigia che andarono a imbrattare il pavimento e parte della parete. Per la seconda volta Terenzio Rucker gli aveva salvato la vita. I poliziotti avevano circondato i quattro rimasti, quello svenuto tra le casse andate a pezzi, quello con il polso fratturato sdraiato in terra, quelli che si dibattevano inutilmente nella massa grigiastra piena di nodi e rigonfiamenti che li aveva intrappolati. L’Uomo Ragno cadde in ginocchio, tenendo una mano sulla ferita. Il sangue si sarebbe coagulato rapidamente, come al solito, ma non abbastanza, era un buco troppo grosso, doveva tamponarlo e fasciarlo. Rucker gli si era fatto subito d’appresso, strappandosi la camicia e cercando di medicarlo alla bene e meglio. Fissava il corpo inerme di quello che avrebbe potuto essere il suo assassino. Terenzio gli parlava, cercava di scuoterlo dal torpore che sembrava averlo colto all’improvviso ma lui non rispondeva. Nei suoi occhi, dietro quelli del Ragno, c’era un immagina che sarebbe rimasta indelebile per tutta la vita nella sua mente.

 

Fine quarta parte...